Di Tiziano Antonelli
Le prossime elezioni europee vedranno le forze di sinistra affannarsi ad esaltare il ruolo che possono svolgere nel Parlamento europeo per mettere fine o attenuare le conseguenze delle politiche che l’Unione Europea ha messo in piedi fin dalla sua fondazione e che accentua ogni giorno di più. Naturalmente non dicono nulla sul fatto che il Parlamento europeo è l’unico parlamento al mondo che non può promuovere leggi, ma solo approvare quelle proposte dalla Commissione Europea, che è il vero centro di potere dell’Unione e su cui il corpo elettorale ha un’influenza pressoché nulla.
Uno dei passaggi essenziali di questa propaganda elettorale è il ruolo che il governo, in questo caso quello europeo, è in grado di risolvere i problemi della società. Il movimento anarchico è convinto all’opposto che è il governo la causa della cattiva organizzazione sociale e che ogni governo, per la sua natura autoritaria, anche volendo sarebbe incapace di risolvere i problemi della società.
Gli altri partiti o liste elettorali, invece, sostengono che i problemi sociali europei sono causati dalla mancanza di competitività e che aumentando la competitività migliorerebbero miracolosamente le condizioni dei ceti popolari.
Niente di più falso. Aumentare la competitività significa produrre di più a costi più bassi, cioè con meno forza lavoro e con salari più bassi: i primi prodotti della competitività quindi sono l’aumento della disoccupazione e la diminuzione del reddito.
Non solo. Se si impostano i rapporti internazionali sulla base della competizione, inevitabilmente dal confronto economico si passa a quello politico e da questo a quello militare, proprio per difendere le aree di influenza, gli sbocchi commerciali e le fonti di materie prime, indipendentemente dalle opinioni dei popoli sottomessi.
Il movimento anarchico contrappone agli uni e agli altri la necessità di abbattere i governi, come primo passo per la liberazione dell’umanità dal dominio e dalla proprietà privata, ma anche per mettere in pratica quelle misure immediate che possono mettere fine alla fame e alla miseria, sotto la guida dei diretti interessati.
In queste settimane Michael Roberts ha recensito sul proprio blog l’ultimo libro di Joseph Stiglitz, economista liberale di sinistra e vincitore del premio Nobel, che ha pubblicato un altro libro per proclamare i benefici di quello che chiama “capitalismo progressivo”. Questa recensione mi dà lo spunto ad approfondire alcuni aspetti dei temi che ho affrontato più sopra. “The Road to Freedom” è un gioco di parole sul titolo sul libro infame di Frederich Hayek, “The Road to Serfdom” (La via della schiavitù) pubblicato nel 1944, in cui affermava che l’intervento del governo nella “libertà dei mercati” causerebbe carenze e cattiva allocazione delle risorse e eventualmente la fine della democrazia e della libertà in una dittatura sul tipo dell’Unione Sovietica di Stalin. John Maynard Keynes espresse il suo accordo con Hayek dopo aver letto questo libro. Egli scrisse a Hayek che “moralmente e filosoficamente mi trovo virtualmente in accordo con tutto ciò; e non solo in accordo, ma in un accordo sentito profondamente”.
Ma Stiglitz certamente no, non è d’accordo. Per lui, l’affermazione di Hayek che i “liberi mercati” conducono alla libertà per gli individui significa realmente “libertà per i lupi e morte per le pecore (Isaiah Berlin)”. I mercati liberi sono progettati per ottenere profitti non per andare incontro ai bisogni sociali della maggioranza. “Le esternalizzazioni sono dappertutto” scrive Stiglitz “Le esternalizzazioni negative più grandi e più famose sono l’inquinamento dell’aria e il cambiamento climatico, che derivano dalla libertà per gli affaristi e gli individui di compiere azioni che provocano emissioni nocive”. L’argomento per restringere questa libertà, sottolinea Stiglitz, è che facendo così “aumenterà la libertà della gente nelle generazioni successive di vivere in un pianeta vivibile, senza dover spendere una quantità enorme di denaro per adattarsi ai massicci cambiamenti del clima e nel livello del mare”.
Per Sitglitz, il nemico della libertà umana non è il capitalismo come tale, ma il ‘neoliberismo’ che ha generato un’impennata delle disuguaglianze, degrado ambientale, il rafforzamento dei monopoli industriali, la crisi finanziaria del 2008 e l’ascesa di pericolosi populisti di destra come Donald Trump. Questi esiti nefasti non sono stati ordinati da alcuna legge della natura o dell’economia, dice. Piuttosto, sono “una questione di scelta, un risultato delle norme e dei regolamenti che hanno governato la nostra economia. Sono stati plasmati da decenni di neoliberismo ed è il neoliberismo che ha fallito”.
Stiglitz ha affermato in un libro precedente che non è il capitalismo che è in difetto ma le decisioni dei governi e delle grandi imprese che li sostengono di ‘cambiare le regole del gioco’ che esistevano nel periodo postbellico di capitalismo gestito. Le regole furono cambiate per deregolamentare, privatizzare, schiacciare le organizzazioni dei lavoratori etc.. Ma Stiglitz non spiega mai perché l’elite di governo ha ritenuto necessario cambiare le regole del gioco. Cosa è successo per trasformare le regole del dopoguerra in quelle neoliberiste?
Comunque, Stiglitz ripete il suo appello a creare un “capitalismo progressivo”. Secondo le regole di questa forma di capitalismo, il governo potrebbe impiegare una gamma completa di tasse, politiche di spesa e di regolamentazione per ridurre la disuguaglianza, ridurre il potere delle imprese e sviluppare i tipi di capitale per le esigenze sociali, non i profitti, come il “capitale umano” (istruzione), il “capitale sociale” (cooperative) e il “capitale naturale” (risorse ambientali).
Stiglitz non vuole sbarazzarsi del capitalismo ma regolarlo, così che lavori per le molte (pecore) e non per i pochi (lupi). “Abbiamo bisogno di regolamenti ambientali, regolamenti del traffico, regolamenti urbanistici, regolamenti della finanza, abbiamo bisogno di regolamenti in tutte le parti costituenti della nostra economia” scrive.
Il primo problema che mi ha posto questa recensione del libro di Stiglitz, come da un altro verso quello di Hayek, è il problema della libertà. La questione credo che sia particolarmente importante per il movimento anarchico che qualcuno ritiene animato da un’idea esagerata di libertà. Hayek ritiene che il libero mercato e la proprietà privata siano baluardo della libertà, mentre Stiglitz ritiene che questa sia meglio garantita da un intervento pubblico di regolazione. Chi ha ragione?
La libertà a cui pensa Hayek è la libertà del supermercato, dove chiunque è libero di comprare la passata di pomodoro che preferisce. In realtà sei libero solo di scegliere la marca che ti viene offerta dalla grande distribuzione organizzata, e questa libertà è comunque limitata dalla disponibilità di spesa. Alla fine la libertà dei mercati si rivela per la stragrande maggioranza della popolazione la libertà di aggirarsi per i centri commerciali che offrono prodotti tutti uguali incatenati alla capienza del portafoglio. Lo stesso discorso vale per la proprietà privata: per la stragrande maggioranza della popolazione proprietà privata significa libertà dalla proprietà, soprattutto libertà dalla proprietà di quei mezzi di produzione che garantirebbero una vita decente. Per quanto riguarda “l’allocazione delle risorse” e gli scambi “equivalenti”, persino i sostenitori più entusiastici del liberismo non possono fare a meno di riconoscere che essi si affermano come tendenza di fondo, prendendo un tempo abbastanza lungo.
In pratica i mercati offrono solo un’uguaglianza ideale, all’interno di scambi basati sulla disuguaglianza. Lo stesso discorso vale per l’allocazione delle risorse: l’allocazione ottimale vale come tendenza di fondo all’interno di allocazioni pessime. Il fatto che la stragrande maggioranza dell’umanità si trovi sempre nel concreto di rapporti ineguali non è minimamente compensato dall’idea che essi rappresentino la versione immanente di un’uguaglianza trascendentale!
Il concetto di capitalismo progressivo gestito dallo Stato sostenuto da Stiglitz non toglie al governo il ruolo di difensore della proprietà privata. Perché se il governo impiega le armi suggerite da Stiglitz per sviluppare i tipi di capitale per le esigenze sociali, non per i profitti individuali, finisce per mettere in discussione il capitalismo stesso, per minare quella classe privilegiata da cui gli viene il consenso su cui basa il proprio dominio. D’altra parte, contrariamente a quanto pensa Stiglitz ed una lettura superficiale delle politiche economiche che si sono succedute in questi decenni, non abbiamo assistito ad un ritiro dello Stato dall’economia, ma ad un suo intervento più accentuato, volto a rafforzare il “lato dell’offerta”, i grandi gruppi monopolistici, finanziari e industriali, ad accrescere la redditività del capitale. In questi decenni, nonostante l’ortodossia monetarista, i deficit di bilancio e il debito pubblico sono aumentati solo che, anziché contribuire anche ad alleviare le miserie delle classi sfruttate, sono stati indirizzati ad aumentare i profitti e a risolvere le crisi industriali e finanziarie. Del resto, pensare di usare il deficit di bilancio per le esigenze sociali è solo un inganno per i ceti popolari quando il sistema fiscale pesa soprattutto su di loro e sulle imposte indirette.
Infine, come può un governo agire per soddisfare le esigenze sociali senza aumentare il deficit e il debito pubblico? Come può un governo conoscere gli interessi di un popolo se non è il popolo stesso ad esprimerli?
Qui si arriva al cuore del problema. La miseria economica non è l’unico prodotto dello sfruttamento capitalistico, ad essa si aggiunge una miseria culturale che rende difficile per gli sfruttati liberarsi della cultura dominante, rendersi capaci di gestire la propria vita. Se non si cambia questa situazione, se non sono gli sfruttati stessi ad imporre i propri bisogni, i propri diritti alla società, nessun governo sarà capace di farlo. Le esigenze sociali non potranno essere soddisfatte da un governo illuminato, ma solo dall’azione diretta degli interessati. Se questa azione diretta si annacqua ancora una volta nella delega al salvatore di turno perderà vigore e alla lunga sarà sconfitta. Questo ci insegnano tutti gli esempi storici. Attraverso la lotta per soddisfare i propri bisogni immediati i vari organismi abituano i loro membri a discutere e a prendere decisioni, apprendono l’importanza della solidarietà, costruiscono quegli strumenti che domani saranno necessari alla gestione della società.
Ma quale società abbiamo in mente? La libertà per cui mi batto non è quella dell’individuo isolato, il Robinson della mitologia capitalista, la libertà è quella delle persone associate in una società senza governo, libere associazioni di produttori e consumatori che producono, distribuiscono e consumano secondo un piano alla cui definizione ogni persona ha partecipato e che ogni persona può accettare o meno. Allora la libertà e l’uguaglianza non saranno il riflesso trascendente di una società basata sul dominio e sulla disuguaglianza, ma saranno la pratica immanente delle relazioni sociali.